Nati dall'8 al 12 novembre
Ariy'el secondo Igor Sibaldi
Sibaldi vede, nella radice ayin-resh-yod del Nome il concetto: "tra le apparenze, come attraverso una nebbia, io conduco alla verità". E aggiunge che, se è vero che a tutti piace sentirsi un po’ speciali, a nessuno piace essere davvero diverso: ogni
‘Ariy’el avrebbe molto da raccontare a questo proposito, se
l’imbarazzo, il timore anzi dei suoi meravigliosi talenti non l’avessero
spinto fin dall’infanzia a tenerli nascosti perfino a se stesso. In
realtà gli ‘Ariy’el sono tutti, per loro natura, veggenti: non sanno
spiegarsi, cioè, come mai molte volte al giorno sboccino nella loro
mente intuizioni tanto luminose sugli argomenti più diversi. È
sufficiente che provino interesse per qualcosa o qualcuno, ed ecco che
già hanno la strana, netta sensazione di saperne moltissimo, di
conoscere soprattutto ciò che quel qualcuno nasconde. Provate a chiedere
loro un consiglio su un qualsiasi argomento: nelle loro risposte
baleneranno lampi di rivelazione, di cui si stupiranno anche loro, tanto
quanto voi. Proprio quello stupore è la conferma del loro talento: gli
antichi profeti sapevano bene che per sviluppare queste strane doti
bisogna educarsi a non voler capire, a meravigliarsi soltanto.
Ma quelli
erano tempi in cui la profezia era un mestiere riconosciuto e spesso
stimato, e lo si poteva imparare da qualche bravo maestro, mentre oggi
queste facoltà eccessive rischiano di risultare soltanto scomode: sia di
per sé, perché sono inquietanti, sia anche per l’eccesso di energia
psichica che a esse si accompagna e che finisce con il diventare,
spesso, un impaccio.
Ognuno sa, per esempio, che nella nostra epoca è
essenziale la specializzazione: ma la mente effervescente degli ‘Ariy’el
non sopporta limitazioni al proprio campo d’azione, scopre e smaschera
ovunque, e in certi suoi settori è perennemente attraversata da flussi
di illuminazioni; dieci professioni non le basterebbero, per poter
mostrare ciò di cui è capace! Complicazioni analoghe si hanno nella loro
vita sentimentale: rarissimo, per un ‘Ariy’el, è trovare un compagno o
amici di cui in breve tempo non conosca già tutti i segreti (il che non è
mai bene) o che riescano a stare al passo con il continuo moltiplicarsi
dei suoi interessi. La
maggior parte degli ‘Ariy’el credono che tutto ciò sia troppo anomalo, e
sgomenti, preoccupati, spaventati anche da quella loro particolare
genialità, si sforzano – e riescono – a fuggire a lungo da se stessi.
Alcuni si trovano lavori che impongano davvero continui spostamenti e
perenne distrazione: autisti, camionisti, ferrovieri, rappresentanti,
interpreti; altri semplicemente si spengono, come noi spegneremmo una
radio: si impongono di sembrare normali e si scelgono perciò modesti
ruoli di factotum – segretarie, assistenti, trovarobe – in cui almeno
una parte delle loro doti possa esprimersi senza attirare troppo
l’attenzione. Ed è naturalmente una sorte triste, non soltanto perché in
fondo al loro cuore rimane sempre la sensazione di aver sbagliato, ma
perché il destino ha l’abitudine di accanirsi contro chi rifiuta la
propria eccezionalità, e li bombarda di frustrazioni in tutti i campi.
Il risultato è di solito una forma depressiva più o meno grave, nella
quale gli ‘Ariy’el si trovano imprigionati come il profeta Giona nella
Balena, a tracciare cupi bilanci della loro esistenza. Erano ‘Ariy’el
sant’Agostino, il più famoso depresso precoce della storia del
cristianesimo; e Dostoevskij, che dopo i primi brevissimi successi
riuscì a buscarsi, invece d’una depressione, una condanna a dieci anni
di lavori forzati per un’intemperanza insignificante; o Alain Delon, che
per scomparire e deprimersi al contempo andò in guerra in Indocina.
Ma,
talvolta, proprio questi periodi cupi possono diventare la salvezza:
nel malessere, nell’angoscia, nella disperazione anche, gli ‘Ariy’el più
fortunati si vedono finalmente costretti a fare i conti con se stessi, e
hanno allora buone probabilità di trovare il coraggio di abbracciare la
propria incredibile vocazione, e di stupire il mondo. Non
sarebbe stato meglio farlo subito? Se siete dunque un ‘Ariy’el, o ne
amate qualcuno, salvatevi e salvatelo, e l’umanità vi sarà grata.
Negatevi, o negategli, qualsiasi possibilità di esitare! In fondo,
l’unica cosa che occorre a questi profeti, è che imparino a fidarsi di
se stessi più che del mondo intorno. Non importa se appaiono troppo
sopra le righe: che possono farci, lo sono davvero! E se tutto ciò che
fanno sembra incontenibile, troppo nuovo, troppo diverso, che male c’è?
Non sanno fare altro, e nessuno saprebbe farlo meglio di loro.
Quanto
alla professione, va notato che in realtà il profeta o lo sciamano sono
occupazioni inadatte ai tempi attuali solo se le si vuole svolgere come
qualche migliaio di anni fa, ammantandole della stessa dignità esclusiva
che avevano allora: ma un profeta o sciamano che abbia fede nelle
proprie doti può dare ottimi contributi ovunque occorrano idee
innovative, soluzioni brillanti o penetrazione psicologica, e le
professioni che si basano su questi talenti sono numerose. Agli ‘Ariy’el
non ne basta una, ne vogliono molte e diverse? E perché no? È
sufficiente che smettano di aver paura di sé, e decidano di meritarsi
gioia e ricompense. Condizione, quest’ultima, da cui dipende anche la
loro felicità privata: com’è possibile, infatti, che chi ti può amare ti
ami davvero, se non osi sapere chi sei e non vuoi farlo sapere a
nessuno?
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