domenica 9 febbraio 2025

ChiroSoma. Cos'è.

 



Ho appena letto una frase che cita: “Tutto è crescita, qualsiasi strada segua (lineare o più “irregolare”), purché effettivamente consenta di arrivare a un punto più alto di quello dal quale si è partiti.”



Ho fatto dei giri assurdi, in vita mia, e in molti momenti, mi sono piegato alla stanchezza.

Non sopporto la parola “resilienza” – mi sa di “sopportazione” – mentre, durante quei tempi in cui il pieno vivere si esprime con chiusure di cicli e ripartenze dal nulla, si è trattato di vera e propria lotta per la sopravvivenza, quei transiti sospesi fra il prima e il dopo, dove niente è come prima e ancora niente è come sarà.

L’ultimo mio passaggio, in ordine di tempo, ha coinciso con la transizione dell’umanità tutta, da un prima a quell’ ancora_non_dopo in cui stiamo vivendo. In questo tempo i temi più gettonati, in ambito umanistico, sono la “responsabilità personale”, il “risveglio”, la “deità (o divinità) interiore”, lo “scoprire chi si è” e il “creare la propria realtà”. Ne ho dimenticato qualcuno? Fa niente: sempre in questo ambito ci si muove.

Ecco: che è da questo che spunta ChiroSoma.


Mi iscrissi al corso di Shiatsu nel ‘97, perché, in uno di quei frangenti descritti sopra, mi sentivo perso in un’irrealtà pericolosa, data dall’immersione totale nello sciamanesimo dei Nativi. Il mettere le mani sulle persone mi era sembrato un modo diretto di mettere i piedi per terra.

Mi diplomai nel 2000 e non ho mai smesso di “trattare” le persone.

Avevo studiato una fra le tante tecniche dello Shiatsu, la mettevo in pratica, ma continuavo ad aggiornarmi con altre pratiche e metodologie, sempre con l’intento di restare coi piedi per terra. E, nel frattempo, continuavo a praticare da solo, con singoli e con gruppi, la Bioenergetica, che ho incontrato nel 1978.

Ma, come dicevo, “tutto è crescita”, anche senza accorgersene.

Molte nozioni si perdevano nel nulla, molte nuove informazioni si incastravano nel terreno che trovavano, l’incontro con molte persone aggiornava il mio software di continuo, e io rotolavo inconsapevolmente in un nuovo ME che “trattava” le persone.

Passando dai “kata” tradizionali attuati a terra, ai trattamenti che definisco “da bar” (che facevo letteralmente nei locali dove mi trovavo con degli amici che lamentavano un problema, seduti al tavolo o al banco), all’uso del lettino, fino al tavolo da cucina dei clienti, a casa loro, scoprivo che dovevo adattare la tecnica imparata, alle contingenze che si presentavano.

Ed ero io che, adattando la tecnica, cambiavo.

Così, negli ultimi due anni, mi sono accorto che la tecnica non c’era più, anzi, meglio, che la tecnica ero Io. Assurdo.

Ancora una volta il dissesto “evolutivo” e la conseguente caduta nella pausa fra il prima e il niente.

Lì dentro, ho cercato di dare una struttura a quello che, mettendo le mani addosso a una persona, facevo, ho cercato di spiegarmi cosa succedeva mentre “funzionava” e osservavo come e quando le cose cambiavano.

Partiamo da un presupposto che, anche se scomodo, viene dichiarato anche dalla medicina ufficiale, quella sana e vera, e cioè che l’80% del lavoro di “guarigione” avviene a opera del paziente. Con tutti i suoi studi e le conoscenze, il medico è coinvolto solo al 20% e se il paziente non ci mette il suo, non succede niente, oltre a un breve cambiamento legato ai sintomi.

Questa dichiarazione demolisce, sia i pazienti, che vorrebbero che il problema fosse tolto loro e basta, sia l’operatore che vede il suo ego sminuito e degradato a mero strumento.

Ma così è.

Ed è in questo contesto che si inserisce il mio personale “aggiornamento del software”. Fino a quel momento, mi domandavo cosa potevo fare direttamente, dove premere e quanto premere, e mi sentivo in colpa, o inadeguato, se non succedeva niente. Ma i clienti, nelle ore a seguire, mi contattavano per dirmi che qualcosa era cambiato e, a volte, mi comunicavano che il cambiamento era avvenuto anche nelle loro relazioni con l’esterno.

A me era sembrato di essermi distratto e di aver solo “smanettato a c…..”, ma evidentemente, invece, qualcosa era avvenuto.

Era troppo facile e “new age” attribuire il tutto alle energie – qualsiasi cosa significhi –, ma evidentemente interveniva qualcosa di sottile che era fuori controllo, sia mio, sia del/della cliente.

Ecco che allora sono riuscito a darmi una qualche forma di spiegazione.

Tornando alle percentuali riconosciute anche dalla medicina ufficiale, si parlava del paziente che opera da solo per l’80% sull’azione di cura e che il medico ci mette il 20%. Ma se si guarda con attenzione, se il 20% riguarda entrambi, il restante 80% del medico, che fine fa?

Esatto: è coinvolto anche questo nel processo.

Ciò significa che tanto quanto è coinvolto l’80% del paziente, lo è anche l’80% del medico. (In questo caso l’operatore, che non vogliamo abusare di professione medica, sia mai.).

Significa, cioè, che, per l’operazione di “guarigione” del cliente, serve – e avviene – la trasformazione dell’operatore.

Nella relazione d’aiuto, in sintesi, perché essa sia funzionale a un cambiamento in positivo dello stato del richiedente, è assunto che ci sia contestualmente un cambiamento dell’operatore. Se l’operatore non diventa consapevole che anche la sua trasformazione è contestuale e funzionale al “successo” dell’intervento, ci sarà a disposizione solo il suo 20%, limitandone di molto la portata.

Andiamo più in profondità e parliamo dell’ipotesi che il DNA sia una ricetrasmittente biologica. Nel punto di contatto fra i due esseri umani, avviene uno scambio di informazioni a livello infra-cellulare, tale per cui, a quel livello, non solo l’operatore riceve informazioni sullo stato del ricevente e le decodifica in base alle sue conoscenze tecniche e alla sua esperienza, ma avviene anche una modifica del suo DNA (come una sorta di incubatrice) che prepara l’informazione da dare al ricevente, in base a quella che ha ricevuto. Gli restituisce, diciamo così, la modifica più congrua e funzionale del suo DNA per stimolarlo alla trasformazione.

La cosa procede così per tutta la durata del trattamento e, se l’operatore ne è consapevole, la sua azione assume il ritmo di questo scambio.

Alla fine, non solo il ricevente ha sperimentato un cambiamento in sé stesso, ma anche l’operatore.

Nessun commento:

Posta un commento