Questa
parola denota un fenomeno estremamente intimo, e di importanza
cardinale. Non è un superficiale essere informati, né un semplice
sapere - e si diparte anche dalla conoscenza, più intellettuale. La
consapevolezza è una condizione in cui la cognizione di qualcosa si
fa interiore, profonda, perfettamente armonizzata col resto della
persona, in un uno coerente. È quel tipo di sapere che dà forma
all’etica, alla condotta di vita, alla disciplina, rendendole
autentiche.
La consapevolezza non si può inculcare: non è
un dato o una nozione. È la costruzione originale del proprio modo
di rapportarsi col mondo - in quanto sapere identitario, davvero
capace di elevare una persona al di sopra dell’ignoranza e della
piana informazione. È il caso della consapevolezza del rischio, che
non frena ma rende accorti; della consapevolezza delle proprie
capacità, che orienta ed entusiasma; della consapevolezza del
dolore, che rende compassionevoli e gentili; della consapevolezza di
essere amati, che rende invulnerabili.
Diventare
consapevoli di quanto accaduto, di come siamo cambiati, di quale
futuro ci sta davanti è un passo fondamentale nella direzione
giusta. Chi è consapevole non subisce ma può affrontare e
rielaborare. Consapevolezze condivise rendono possibile un agire
comune.
Oggi sono stato cooptato per parlare della “consapevolezza” e di quello a cui serve, perché è così importante. Ma io non ne so niente. Se non quel poco che è la mia esperienza.
Non è un caso, però, che io sia coinvolto in questa operazione in questo tempo. Non per ciò di cui sono portatore, ma perché è questo tempo che evoca ricerche e domande in questa direzione. In un certo senso siamo tutti coinvolti a cercare di esplorare il vero senso di questa parola, per altro abusata, ma determinante oggi. Che forse è per questo che è abusata: cerchiamo di diventare consapevoli della consapevolezza.
Partiamo da questo, quindi:
la consapevolezza si acquisisce, non ce l’abbiamo in dote.
Per cominciare questo percorso serve partire da un punto specifico: accettare che si è in-consapevoli di essere in-consapevoli. In questo modo si diventa consapevoli di essere in-consapevoli. Così siamo a metà strada.
La consapevolezza, come si diceva, è un’esperienza individuale, una costruzione originale del proprio personale modo di interagire col mondo.
In questo caso, in questo tempo, siamo chiamati a diventare consapevoli di chi ognuno di noi è. E ognuno fa un’esperienza di sé particolare, in cui viene alla luce qualcosa che prima non poteva, in nessuno dei tempi passati, per nessun essere umano: essere consapevoli come individui per essere consapevoli come specie.
Perché è questo che sembra che stia succedendo, e cioè che l’umanità tutta è a una svolta, ma una parte di essa sta producendo una speciazione di cui molti di quelli che ne fanno parte non se ne rendono nemmeno conto. In altri tempi le speciazioni sono avvenute con la coscienza che le popolazioni che si staccavano dai luoghi e persone di origine per diventare altro, avevano ben chiara, mentre ora ciò che le differenzia è la specie madre che ha allontanato la specie figlia. Non siamo stati noi a volercene andare, ma ci hanno espulsi loro dalle loro modalità.
Questa dovrebbe essere la prima consapevolezza, con cui accedere alla seconda, e cioè che non avendo una meta, né l’intento, ci siamo ritrovati completamente spiazzati e costretti a guardare qualcosa che ancora non esiste. Isolati gli uni dagli altri fra noi e tutti insieme da loro, siamo stati costretti, chi più chi meno, a confrontarci con noi stessi senza la più pallida idea di chi fossimo.
Siamo stati costretti a diventare consapevoli di essere in-consapevoli.
Siamo a buon punto, come si diceva. A metà dell’opera.
---- Differenza fra conoscenza e consapevolezza
C’è un altro scalino da superare ed è quello di comprendere la differenza fra consapevolezza e conoscenza.
Una delle lamentele più accorate, di questi tempi, è che “ci viene nascosta la verità”, raccontandoci menzogne, a volte plateali, censurando chi cerca di svelarle e mantenendoci in allerta-sopravvivenza perché non ce ne occupiamo. Ci arrabbiamo perché non viene fuori la verità che tutti conoscono, credendo che la conoscenza ripristinerebbe uno stato di giustizia e spingerebbe la realtà nella direzione di un’etica sociale più congrua e sana.
Conoscere i fatti, conoscere gli ingredienti dei vaccini, conoscere i segreti delle élite, conoscere i messaggi fra poteri. Crediamo che il conoscere può riportare in equilibrio ciò che si è sballato.
Il conoscere, o sapere, non porta necessariamente a una consapevolezza. Non si diventa consapevoli di quello che si sa, ma attraverso, con, quello che si sa/conosce.
Perché, nella stragrande maggioranza dei casi, il sapere qualcosa conduce ad essere consapevoli di qualcosa di più ampio, o più profondo.
Al contrario, molto spesso, conoscere molte cose e ampiamente, non vuol dire che il protagonista sia consapevole di quello che quelle conoscenze significano. La consapevolezza usa la conoscenza per aggiungere e armonizzare il nuovo con il già presente. Non è la conoscenza di cose nuove a far evolvere una persona, ma è la consapevolezza della persona che la porta a eliminare cose che, all’arrivo del nuovo, non servono più nella direzione della sua crescita, sviluppo ed evoluzione.
------ Ma vediamo ora perché è così importante la consapevolezza.
“È la costruzione originale del proprio modo di rapportarsi col mondo - in quanto sapere identitario, davvero capace di elevare una persona al di sopra dell’ignoranza e della piana informazione.”
“… la costruzione originale del proprio modo…” sottintende tutte le sfaccettature dell’azione individuale: 1) costruire, non subire; 2) originale, non emulata o copiata; 3) proprio, senza interventi altrui; 4) modo, dal Latino modus ‘misura’.
L’importanza di questa cosa è che se c’è, niente e nessuno può condizionare, né spingere il consapevole in alcuna direzione che non sia lui a scegliere, non perché sa la verità oggettiva che non esiste, ma perché è presente a sé stesso fino in fondo. Mi ripeto dicendo che non è importante di cosa essere consapevole, ma l’essere integrati con la funzione esistenziale della propria consapevolezza, che sarà applicata ad ogni evenienza, sia interna, sia esterna.
Questo porta, se avviene, al sapere identitario, davvero capace di elevare una persona al di sopra dell’ignoranza e della piana informazione, rendendo l’individuo in grado di rapportarsi col mondo nell’ambito della realtà.
Realtà che, a sua volta, si svelerà (si toglierà i veli) sempre più chiaramente. Anche su sé stesso, su chi egli è ‘veramente’.
Vorrei soffermarmi un po’ su questo ‘veramente’?
Relativamente al ‘perché è così importante la consapevolezza’, mi domando: quanto di quello che ognuno crede di sé stesso è una costruzione originale?
Ecco il senso dell’importanza della consapevolezza: scoprire chi si è.
In questa direzione ci si scontra con TUTTO ciò che abbiamo creduto fosse vero, con TUTTO ciò a cui ci siamo attaccati come consolatorio, o motivante, o rassicurante. E per TUTTO intendo ogni e qualsivoglia cosa sia data per scontata e non. Compreso ciò che riteniamo di stare sperimentando come reale nella nostra vita quotidiana. Dalle sensazioni alle emozioni, dalle necessità ai sogni, dalla materia allo spirito. TUTTO.
Capire questo è importante, per poi procedere a livello di consapevolezza, in modo da creare la condizione in cui la cognizione di qualcosa si fa interiore, profonda, perfettamente armonizzata col resto della persona, in un uno coerente.
Come per tutto, anche in questo caso è necessario un motore, una propulsione che spinga a costruire il proprio modo di relazionarsi col mondo, che sennò è facile abbattersi e sconfortarsi.
----- Se non fosse così importante che l’essere umano sia consapevole di "chi è", non ci sarebbero state azioni determinate a impedirgli di esserlo.
Per questo partiamo dall’inizio, o meglio, da quello che siamo abituati a credere che sia l’inizio, in questo caso la versione a noi più vicina di quell’inizio apparentemente comune a tutte le tradizioni e culture.
Lasciamo perdere le teorie di Darwin a cui nemmeno lui, né il suo socio Wallace credevano, e lasciamo perdere chi dice che siamo stati creati a immagine e somiglianza di qualcuno e fermiamoci solo sulle parole e sui concetti ad esse sottesi di chi ci dice che a quel tempo c’era. Prendiamo quelle che è scritto siano state dette ai tempi della genesi.
“22... l'uomo è diventato come uno di noi, quanto alla conoscenza del bene e del male. Guardiamo che egli non stenda la mano e prenda anche del frutto dell'albero della vita, ne mangi e viva per sempre.
23 ... mandò via l'uomo dal giardino d'Eden, ...
24 … scacciò l'uomo e pose a oriente del giardino d'Eden i cherubini, che vibravano da ogni parte una spada fiammeggiante, per custodire la via dell'albero della vita”.
L’uomo in questione era una specie adibita alla schiavitù, che una volta fuori si è poi rimescolato a chi ha trovato lì... ma lasciamo perdere. Ci interessa osservare come la consapevolezza sia stata osteggiata da subito perché pericolosa per qualcuno. E non ci interessa se è una storiella per bambini deficienti. Cogliamone la ‘morale’, per così dire, come si fa per le varie opere e storie di tutti i tipi e tempi.
Da bell’inizio, il fatto di essere diventati, in quanto costruzione originale, ‘come’ qualcun altro attraverso la conoscenza di qualcosa che non si voleva si conoscesse, è un pericolo per quel qualcuno. Ma il vero pericolo era quello che, visto che il ‘come’ era stato raggiunto, se prendesse in più il frutto di un albero da cui, evidentemente, il ‘qualcuno’ in questione prendeva abitualmente, sarebbe diventato ‘più’ di lui. Non entriamo nel merito delle parole usate, ma limitiamoci all’azione svolta in quel momento e all’intenzione esplicita di perpetuarla per l’eternità: tenere l’uomo lontano da quel qualcosa. Quale che sia il frutto, o gli effetti della di cui ingestione, l’uomo sarebbe semplicemente diventato consapevole di essere diverso da prima. Esattamente come con l’ingestione del primo frutto. È l’aumento della consapevolezza di ‘chi è’ a rendere l’uomo pericoloso. Tanto pericoloso da rendergli impossibile per sempre l’accesso all’albero. E alla consapevolezza conseguente.
Diciamo che vista l’ostinazione e la tenacia con cui siamo stati evidentemente lasciati ignari, dovrebbe venire la voglia di costruirci la nostra consapevolezza a tutti i costi. Partendo però dall’evidenza che ogni cosa sembri stata una conquista della conoscenza, sia stata invece un modo per tenercene lontani.
Ecco perché TUTTO ciò che crediamo di sapere suggerisce che lo sappiamo a discapito della consapevolezza.
C’è un’altra leggenda, della cultura Visnuista, che in forma diversa racconta la stessa cosa. È quella in cui Brahma incazzato con gli esseri umani, riunisce gli dei minori per capire dove nascondere il potere a loro (degli uomini) disposizione e alla fine decide di infilarlo nei recessi più profondi di loro stessi. Cercheranno dappertutto, meno che dentro sé stessi.
Ma prendiamo come spunto un'altra curiosità sapienziale.
Il sefer Yetzirà, il più antico testo di Cabalà, nel capitolo primo, afferma in modo perentorio: “Dieci è il numero delle Sephiroth ineffabili, dieci e non nove, dieci e non undici. Intendi con sapienza, e sii saggio con intelligenza, investiga questi numeri, e trai da loro conoscenza, il disegno è fisso nella sua purezza, e riporta il Creatore nel Suo luogo.”
Ma, come si vede dai disegni, sono 11: Da’at non è da prendere in considerazione.
“L’undicesima Sephiroth chiamata Daat, [...] rappresenta la Conoscenza unificante che deve essere ristabilita attraverso l’Unione degli opposti. Si tratta della sede di un’intensa attività spirituale, che rimane però misteriosa ed elusiva se espressa nei termini della consapevolezza umana.”
(https://www.istitutobioenergia.it/8981-2/)
“… se espressa nei termini della consapevolezza umana”, cioè il nulla.
Intendo dire che sul piano della ricerca di riscoprire chi siamo, utilizzando strumenti ritenuti sapienziali, ci viene suggerito di farci gli affari nostri, di seguire le indicazioni del maestro e di non rompere le palle con la conoscenza unificante. Ripeto: conoscenza unificante. Perché, tanto, con la consapevolezza che abbiamo non ci arriveremo mai.
Ancora una volta dobbiamo fare quello che ci viene detto di fare, non quello che non dobbiamo fare. Che non sia mai che si corra il rischio di svelare la verità su chi siamo.
Perché leggendo un po’ su questo tema, si scopre che è per il nostro bene: secondo loro, se usassimo la conoscenza Da’at, separeremmo le cose che sono già unite invece di unire cose separate. Ingegnoso, vero? Applicato fra l’altro fino a ieri pomeriggio.
A che livello di consapevolezza ci ritroveremmo se facessimo quello che in questo mondo duale è per antonomasia il compito dell’esistenza umana, cioè l’unione degli opposti?
Da questo punto di vista concludo sottolineando che se non fosse così pericoloso che noi diventiamo consapevoli di chi siamo, ci avrebbero lasciati stare. Invece è da bell’inizio che ci ostacolano. Ergo…
---- Sofferenza. Diaballo e Simballo
Forse che se diventassimo consapevoli non ci sarebbe più sofferenza? Forse che la sofferenza, mantenuta come valore dall’inizio, sia proprio il modo per tenerci lontani dal divenire consapevoli? Forse che si potrebbe iniziare a diventare consapevoli osservando proprio la sofferenza come strumento per distrarci? Non potrebbe essere così viste le ultime azioni che hanno avuto e hanno proprio l’intento di mantenerci costantemente in allarme e quindi in sofferenza?
Osservare la sofferenza in sé, non i motivi che la causano, quindi, perché è lo scopo principale dell’azione di sviamento.
Ricordi? “… Da’at è la Conoscenza unificante che deve essere ristabilita attraverso l’Unione degli opposti. Si tratta della sede di un’intensa attività spirituale, che rimane però misteriosa ed elusiva se espressa nei termini della consapevolezza umana.”
L’“unione degli opposti” sottintende a) che sia possibile averla e b) che sembra esserci stato un tempo in cui gli opposti in questione fossero una cosa sola, prima che qualcuno, come già detto, ci mettesse di mezzo il διαβάλλω (diaballo/diavolo), che significa “gettare qualcosa fra una cosa e l’altra separandole”.
È da questa separazione che si genera la sofferenza, è l’essere separati da una parte di sé che genera la sofferenza, perché da qualche parte c’è la memoria di un’unità originaria che si cerca in tutti i modi di ritrovare e sperimentare.
Qual è la grossa difficoltà, anch’essa indotta, che ha a che fare con questa sofferenza, è facile da desumere: cercare di trasformare gli opposti per trovare una mediazione e un punto d’incontro fra loro, mantenendoli due.
Mentre la consapevolezza opta per il σύμβάλλω (symballo/simbolo) che significa “gettare insieme”.
Se uno “getta” qualcosa fra i due per separarli, l’altro non può “gettare” qualcosa per unirli (cosa getta, la colla?). “gettare insieme” significa prendere entrambi gli opposti e lanciarli nell’esperienza della propria vita contemporaneamente, lasciando alla consapevolezza il compito di integrarli dentro di sé. Ricorda: “la cognizione di qualcosa si fa interiore, profonda, perfettamente armonizzata col resto della persona, in un uno coerente”.
Facile?
Per niente. E non c’è nessuno che abbia le istruzioni. L’esperienza può essere solo e unicamente individuale.
E qui arriviamo ad un altro passaggio importante. Dato che
---- (massa Critica) la consapevolezza è un’esperienza incontrovertibilmente individuale,
non è dato trovarne una di specie, di gruppo, di associazione o di squadra. E questo genera un profondo disagio nella stragrande maggioranza degli esseri umani. Il detto “l’unione fa la forza”, che può starci, funziona solo se ogni singolo individuo di quell’unione è consapevole, altrimenti quell’unione è solo un grumo di bipedi che, pronti a seguire colui che li guidi, gli si ritorcono contro non appena è richiesta la loro consapevolezza.
Di questi tempi va per la maggiore l’idea che ci dovremmo unire in numeri importanti per protestare e ottenere cambiamenti reali della situazione in atto, e c’è un notevole disappunto perché questo non succede, anzi. E ritorna costantemente la faccenda della “massa critica”, ritenendo che sia formata da una percentuale elevatissima della popolazione totale.
Ma non è così.
Il concetto di massa critica è preso a prestito dalla fisica nucleare e come ci racconta wikipedia, la “Massa critica indica in generale una soglia quantitativa minima oltre la quale si ottiene un mutamento qualitativo.”
Nel sociale, fra noi umanoidi, ci sono stati molti tentativi di calcolare la quantità di persone “evolute” necessaria perché si salti all’evoluzione qualitativa di tutta la specie. Chi dice il 25%, chi parla di 144.000, chi dell’1% del totale e chi, infine, della radice quadrata dell’1% del totale, circa 9.000 persone su 8 miliardi.
Che siano scientifici o no, sono calcoli che esulano da ciò che ci interessa, ma che hanno in comune una cosa: quel numero, quale che sia, rappresenta la quantità di singoli individui che fanno da soli, isolati da tutti gli altri, un percorso di consapevolezza.
Come abbiamo detto, non esistono istruzioni utili perché quelle dateci fin qui sono servite a tenerci lontani dalla consapevolezza, ma soprattutto perché non sarebbe “consapevole” colui che non lo è diventato da solo.
Vogliamo che cambi il mondo? Ambizione assolutamente auspicabile. Ma per riuscirci c’è una sola cosa che è in nostro potere fare: cambiare noi stessi diventando consapevoli.
È mia opinione che stia succedendo qualcosa che, riguardo alla consapevolezza, viene da oltre la responsabilità individuale, pur mantenendone la preponderanza. Ci sono delle leggi che la natura segue, che la fisica osserva e ci spiega. In questo caso c’è la terza legge della dinamica che ci spiega che ad ogni azione corrisponde una reazione di uguale intensità e in verso contrario. Potrebbe essere uno degli aspetti del symballo che getta insieme le due forze opposte. Ma a me interessa raccontare quello che mi sembra di vedere relativamente alla consapevolezza e a quanto c’entri la natura.
---- Principio di Azione e Reazione
Viviamo in un periodo, di alcuni anni, piuttosto turbolento, in cui ci sembra, sconcertandoci, che il mondo stia andando a rotoli in mano a degli imbecilli pericolosissimi, i quali sembra non si rendano conto con che cosa stiano giocando. Tanto che a qualcuno viene da dire “ma chi me lo fa fare a essere consapevole, meglio essere ignaro e beota”. Sembra proprio che tanto più si approfondiscono le cose, si senta parlare di risveglio, di spiritualità, di consapevolezza, tanto più aumenti l’assurdità della coscienza globale. Tanti di più diventano i consapevoli, tanto più aumentano gli imbecilli.
Ecco: io credo stia avvenendo il contrario, proprio in base alla terza legge.
Tanto più sta aumentando la follia, tanto più sta aumentando la consapevolezza.
Non è assurdo come sembra.
In primis non stiamo parlando del numero delle persone consapevoli, ma di uno stato a cui contribuisce la massa critica di cui sopra, fatta di poche persone. Le quali, come abbiamo già detto, sono un piccolo numero perché solo in pochi sono in grado di affrontare le difficoltà che il diventare consapevoli comporta. Il che implica il fatto che ovviamente ben pochi di coloro che si definiscono risvegliati o consapevoli lo siano sul serio. Anzi: fanno mucchio con gli altri.
Per cui, all’aumentare dell’imbecillità su sempre più persone, aumenta la consapevolezza, ma distribuita su pochi (quasi 9 mila su 8 miliardi) solitari e silenziosi smanettatori dei propri neuroni.
Ce lo ricordiamo? È dall’inizio che c’è chi fa ciò che è in suo potere per tenerci lontani dalla consapevolezza, no? Il mantenerci in perenne stato di allarme e di emergenza ha questo scopo. Se le inventano di ogni, ogni giorno.
Siccome però ci investono un sacco di energia, con un’intensità spesso insopportabile, vuoi che la natura non li consideri? Vuoi che la natura non faccia il suo mestiere solo in questo caso? Vuoi che non ci sia una reazione di uguale intensità, nel verso contrario? Anche nelle modalità? Cioè, tanto più una è roboante, casinista, strombazzata e su enormi percentuali di esseri, tanto più la reazione è silente, nascosta, e su piccole percentuali.
Ma l’intensità è uguale.
(https://www.studenti.it/dinamica2.html)
“Se un oggetto A esercita una forza su un oggetto B, anche B esercita una forza su A. Le due forze sono uguali in intensità e direzione, ma opposte in verso, cosicché il sistema costituito da A e B è globalmente inalterato”.
Chiariamo subito che quell’ “inalterato” è riferito all’equilibrio delle forze, non alle risultanti di questa contrapposizione. Se il carbone viene pressato a livelli potentissimi e per periodi lunghissimi da una massa incommensurabile di roccia, lui reagisce con la stessa intensità e in verso contrario... diventando diamante. Il carbone lo usiamo per certi scopi e il diamante per altri, no?
All’aumento della forza della consapevolezza come reazione, corrisponde la presenza sul pianeta di una consapevolezza/diamante sempre più pervasiva, tanto da essere il prodotto stesso, il sistema inalterato frutto dell’interazione e integrazione delle due forze, fin a quel punto “contrarie”.
Inoltre la scienza, quella vera, dà un altro contributo interessante, ma non mi metto a spiegarlo, visto che è talmente complicato da capire che, per spiegarlo, appunto, dovrei laurearmi in fisica.
Si basa sulla seconda legge della termodinamica e qui mi fermo. A noi interessa il fatto che ci spiega che la “coscienza” (studiata dai moderni fisici come elemento essenziale dell’esistenza dell’universo) è lo stato di equilibrio del nostro sistema /specie “essere umano” e che è ineluttabile il suo raggiungimento, anche se rallentabile, attraverso l’aumento della “consapevolezza”. Questo ci interessa perché oltre alla nostra individuale partecipazione, un forte contributo viene offerto anche dai processi evolutivi dell’universo.
In conclusione: la consapevolezza è il mutamento di stato dell’individuo mentre la coscienza è la méta a cui il mutamento di stato tende.
È importante perché permette di cambiare le cose.
Veramente non è importante di che cosa essere consapevoli, anche se di più cose si è consapevoli, più aumentano le possibilità di cambiare l’esistente, ma di esserlo in quanto stato della propria attenzione, di presenza a quello che, succedendo, diventa parte di noi, “perfettamente armonizzata col resto della persona, in un uno coerente.”